ILLEGITTIMO LICENZIAMENTO. Attività sportiva svolta durante i giorni di permesso ex legge 104/92
E’ stata di recente sottoposta alla Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione la vicenda di una dipendente di una società privata, nella fattispecie un Istituto Bancario, alla quale, dopo una serie di contestazioni disciplinari, veniva irrogata la misura disciplinare del licenziamento: si incolpava la lavoratrice del reiterato abusivo utilizzo di permessi concessi per l’assistenza a famigliare disabile, nonché della veridicità della malattia relativa ad un giorno lavorativo.
Per pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall’assistenza al famigliare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984/2014; Cass. n. 8784/2015; Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 17968/2016; Cass. n. 9749/2016; Cass. n. 23891/2018; Cass. n. 1394/2020).
In coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore come meritevoli di superiore tutela. Laddove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.
Inoltre, la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e della finalità per cui il congedo è consentito, appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito.
Già con sentenza del 28 agosto 2022, n. 25290, la Cassazione pone in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/92, da un lato sono delineati come permessi giornalieri, e non su base oraria e cronometrica e, dall’altro, possono essere fruiti “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, ma per assistere in forme non specificate, in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”.
Ancora, più recentemente, si è specificato che il nesso che pone il testo normativo di cui all’art. 33, comma 3, L. n. 104/92 “non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e la necessità, gli oneri, gli incombenti che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi ed i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione delle finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio richiesto dal datore di lavoro.”
E’ quindi elemento essenziale della fattispecie di cui all’art. 33, comma 3, l’esistenza di un diretto e rigoroso nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona disabile, da intendere, come già chiarito dalla stessa Corte di Cassazione, non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col permesso, delle proprie esigenze personali e famigliari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile. Ciò senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all’assistenza in relazione agli orari di lavoro, purchè risulti non solo non tradita ma ampiamente soddisfatta, in base ad una valutazione necessariamente rimessa al giudice del merito, la finalità del beneficio che l’ordinamento riconosce al lavoratore in funzione della prestazione di assistenza ed in attuazione dei superiori valori di solidarietà (Cass. n. 19580/2018; Cass. n. 21520/2019; Cass. n. 30676/2018; Cass. n. 23891/2018; Cass. n. 20098/2017.
Nel caso de quo il giudice di seconde cure, quanto all’utilizzo dei permessi oggetto di contestazione, aveva operato un accertamento fattuale sulla base di documenti e testimonianze, considerando che “nello stesso tempo la funzione di assistenza al disabile non viene meno solo perché nell’ambito dell’intera giornata il dipendente riservi alle proprie esigenze personali un limitato lasso di tempo, utile per il recupero delle energie spese nell’attività svolta in favore di persona portatrice di handicap grave, soprattutto nei casi, come quello vagliato, nei quali detto lasso di tempo venga dedicato allo svolgimento di un’attività di carattere terapeutico”. Infine la Corte d’Appello, richiamando Cass. sez. lav. n. 17968/2016, non ha affermato che la “camminata veloce”, praticata quotidianamente dalla lavoratrice per proprio fine terapeutico, fosse “in relazione causale diretta con l’assistenza al disabile”, bensì ha concluso che tale relazione era “certamente rinvenibile nel caso concreto nel quale, come si è visto, la dipendente ha destinato tutte le giornate oggetto di contestazione permanendo costantemente presso l’abitazione della suocera disabile, allontanandosi unicamente per limitati lassi di tempo necessitati dallo svolgimento di un’attività sportivo-terapeutica, durante i quali, per altro, ha tenuto sotto controllo la situazione con l’ausilio di una collaboratrice”.
L’ordinanza del 1° giugno 2025 n. 14763 della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, a cui è stata demandata la risoluzione definitiva della vertenza, ha concluso con lo sposare totalmente la decisione presa dalla Corte di merito, in quanto la stessa in base ad accertamento probatorio, non censurato in sede di legittimità, risulta conforme a tutti i principi di diritto richiamati, confermando la illegittimità del licenziamento con conseguente reintegrazione e risarcimento in favore della dipendente.