LE SEZIONI UNITE SULLA RINUNCIA ABDICATIVA DELLA PROPRIETÀ IMMOBILIARE (Cassazione Civile, Sez. Un., 11 agosto 2025, n. 23093)
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, risolvendo una questione rimasta a lungo in una zona grigia della giurisprudenza civile, hanno sancito la piena validità dell’atto unilaterale di rinuncia alla proprietà immobiliare, anche se motivato da ragioni personali, economiche o gestionali, senza necessità di perseguire un interesse collettivo.
Con due ordinanze di rinvio pregiudiziale, i Tribunali di L’Aquila e di Venezia chiedevano alla Suprema Corte di chiarire se nel nostro ordinamento sia consentito dismettere unilateralmente la titolarità di un immobile e, in caso affermativo, quali limiti e conseguenze ne derivino.
Sono, infatti, sempre più frequenti le richieste ai notai di stipulare atti di rinuncia al diritto di proprietà immobiliare, per la ragione che esistono, come nei casi oggetto dei giudizi pendenti, innumerevoli situazioni nelle quali il proprietario non solo non trae alcuna utilità dagli immobili di cui è titolare, ma deve pure sostenere costi spesso non irrisori.
Le Sezioni Unite, ponendo fine a un lungo contrasto giurisprudenziale e dottrinale, hanno affermato la piena validità dell’istituto della rinuncia abdicativa, precisandone la natura, i limiti e le conseguenze.
La Corte ha stabilito che la rinuncia alla proprietà è un atto giuridico unilaterale e non recettizio, che si perfeziona con la dichiarazione formale del proprietario e la relativa trascrizione nei registri immobiliari, producendo, ex lege, l’acquisizione a titolo originario del bene da parte dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.
Ciò significa che l’effetto acquisitivo a favore dello Stato non dipende da un’accettazione o da un atto di volontà dell’Amministrazione, ma si produce, per legge, quale conseguenza della vacanza del bene.
La Corte ha altresì escluso che la rinuncia possa essere dichiarata nulla per il solo fatto di perseguire un fine di convenienza personale, ribadendo che eventuali limitazioni a questa facoltà spettano esclusivamente al legislatore e non possono essere ricavate in via interpretativa dall’art. 42, comma 2 Cost., il quale chiede alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata determinandone i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale.
La “funzione sociale” esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, ma non sancisce, comunque, un dovere di essere e di restare proprietario per motivi di interesse generale, legati all’affermazione della responsabilità per l’uso dannoso del bene.
Dalla cornice ordinamentale, afferma la Suprema Corte, non emerge, dunque, un generale potere-dovere del proprietario di esercitare i suoi poteri in maniera “funzionale” al sistema socioeconomico: il godimento del bene resta forma di esercizio del diritto di proprietà appartenente al titolare per il soddisfacimento di un interesse patrimoniale da lui disponibile e, in assenza di una previsione normativa che vieti o condizioni la rinuncia, il proprietario resta libero di esercitare la sua facoltà di disporre del bene anche rinunciandovi.
Quanto al profilo della causa, in quanto atto unilaterale diretto ad estinguere un diritto patrimoniale, l’unico interesse e l’unico intento che hanno rilievo giuridico sono quelli dell’autore della dichiarazione di rinuncia: così delineata la rinuncia trova causa, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa e non nell’atto di un altro contraente cui sia destinata, né, del resto, produce un vincolo contrattuale.
È, pertanto, escluso che un atto di rinuncia possa essere considerato immeritevole di tutela solo perché trasferisce allo Stato gli oneri o i rischi connessi al bene: l’unico interesse che rileva è quello, a saldo totalmente negativo, del titolare a disfarsi della proprietà.
Non è configurabile neppure un abuso del diritto, poiché la rinuncia è espressione di una facoltà intrinseca alla proprietà e non di un potere esercitato oltre i limiti imposti dall’ordinamento.
Quanto, infine, alle conseguenze legate alla rinuncia alla proprietà immobiliare, le Sezioni Unite precisano che: la stessa non libera da obbligazioni o responsabilità già insorte in capo al proprietario; l’acquisto da parte dello Stato, pur avvenendo a titolo originario ai sensi dell’art. 827 c.c., non comporta tuttavia la cancellazione di passività pregresse di natura civile, amministrativa o tributaria; pur avendo natura di atto unilaterale e non recettizio, la rinuncia è comunque un atto di disposizione patrimoniale e, come tale, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., quando ne ricorrano i presupposti; la mancata comunicazione della rinuncia all’Agenzia del Demanio non incide sulla validità dell’atto, ma può rilevare sul piano della responsabilità, in particolare con riferimento ai danni derivanti da condotte poste in essere prima della stessa o dallo stato di conservazione del bene al momento della dismissione.
La sentenza n. 23093/2025 riduce, pertanto, l’incertezza interpretativa che aveva caratterizzato la materia, sancendo, almeno al momento, la piena liceità della rinuncia alla proprietà immobiliare, lasciando, tuttavia, con ogni probabilità, aperto il dibattito in ordine alle sue conseguenze.