FALSIFICAZIONE DELLA PROCURA ALLE LITI: le Sezioni Unite sul “dovere di verità” dell’avvocato
Le Sezioni Unite, con ordinanza n. 26473/2025, depositata il 1° ottobre 2025, riaffermano con fermezza il “dovere di verità” dell’avvocato, di cui all’art. 50 del Codice Deontologico Forense.
La vicenda prende avvio dalla sezione lavoro di un Tribunale che segnala al COA la condotta tenuta dall’Avvocato Tizio nel corso di una causa di lavoro dallo stesso instaurata per l’impugnazione del licenziamento di un lavoratore.
Il COA veniva informato che il professionista aveva alterato una procura datata 3 giugno 2017, dallo stesso già autenticata e depositata in un altro procedimento, al fine di farne uso nella successiva causa di lavoro, così falsamente rappresentando l’apposizione della firma e la sua autenticazione nella successiva data dell’8 aprile 2018. Nell’esposto veniva segnalato, altresì, che l’avvocato, invitato dal Giudice ad esibire l’originale della procura datata 3 giugno 2017, che risultava allegata agli atti del procedimento precedente, aveva prodotto un mandato datato 3 giugno 2017 palesemente difforme da quello depositato nel predetto giudizio, con ulteriore falso materiale ed ideologico.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina, ritenuti provati gli addebiti e sussistente la responsabilità dell’incolpato, gli irrogava la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per anni uno e mesi sei.
L’avvocato proponeva personalmente impugnazione avverso la decisione del C.D.D. chiedendo al C.N.F. in via principale l’annullamento ed, in via subordinata, l’irrogazione della censura ovvero, in ulteriore subordine, la riduzione della durata della sospensione.
Il Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso: risultava provato, per sua stessa ammissione, che l’avvocato avesse alterato la data del mandato a sue mani sottoscritto dal cliente e regolarmente depositato in un primo giudizio, per poi indebitamente utilizzarlo in altre sedi; l’avere agito nell’interesse e con il consenso del cliente non rilevava in quanto circostanze inidonee ad escludere il rilievo deontologico del fatto; neppure rilevava il fatto che la firma nell’originale del mandato fosse autentica.
L’organo giudicante richiamava il principio secondo cui la sottoscrizione del legale nella autentica quale pubblico ufficiale vale a confermare non solo che il cliente ha apposto la sua firma dopo essere stato identificato, ma altresì che la firma dell’assistito è stata apposta in quella specifica data e con il preciso scopo di essere utilizzata per un determinato giudizio. Dunque, l’alterazione del giorno, del mese e dell’anno indicati nel mandato era sufficiente da sola a realizzare appieno la condotta descritta nell’art. 50 CDF senza che potesse trovare alcuna giustificazione la necessità di tutelare il cliente.
L’avvocato proponeva successivamente ricorso per Cassazione avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense, evidenziando il rischio di un grave danno e, richiedendo, pertanto, la sospensione del provvedimento impugnato.
Il Collegio, ha reputato di dare continuità all’indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 6967/2017 delle Sezioni Unite, con la quale si è affermato che l’istanza di sospensione della esecutorietà della decisione adottata dal C.N.F. può essere contenuta nel ricorso proposto, avverso quest’ultima, alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sempre che abbia una sua autonoma motivazione e sia riconoscibile quale istanza cautelare.
Nel merito l’istanza resterà assorbita, come si dirà, dalla pronuncia di infondatezza dei motivi del ricorso.
Il ricorrente ha affermato di avere sempre ammesso che la procura fosse la medesima, salvo il cambio di data, sostenendo che, nonostante ciò, la procura non sarebbe nulla, ma valida in quanto la data non sarebbe elemento essenziale dell’atto, e la nullità relativa a tale elemento non sarebbe idonea ad inficiare la validità complessiva dell’atto processuale. L’elemento soggettivo e la suitas della condotta “inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie” non sarebbero ravvisabili in questo caso, in quanto il ricorrente voleva certamente iniziare un nuovo giudizio valendosi della medesima procura conferita in un giudizio precedente, ma non “confondere il giudice rispetto alla propria precedente condotta falsificatoria”.
Nella pronuncia oggi esaminata, viene premesso che il ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione avverso le decisioni del C.N.F. è ammesso solo per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge; il vizio di motivazione è ammesso negli stessi termini entro cui, a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c. apportata dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, è denunciabile in cassazione il vizio di motivazione: la relativa censura può riguardare solo “l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. Un. 7 aprile 2014 n. 8053; Cass. Sez. Un. 2014 n. 8054). Il ricorrente, pertanto, non può chiedere una revisione dell’accertamento di fatto, condotto dal C.N.F. sulla scorta dei documenti di causa, e ciò anche con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo della suitas in relazione alla condotta costituente illecito disciplinare. La sentenza impugnata, sostengono le Sezioni Unite, ha motivato ampiamente sulla rilevanza disciplinare della condotta anche sotto il profilo soggettivo, evidenziando che la falsificazione del mandato – delitto doloso – ha comportato anche un procedimento penale concluso con il proscioglimento solo per il buon esito della messa in prova: nella specie vi è stata una consapevole falsificazione dell’originario mandato rilasciato dal lavoratore assistito all’avvocato che lo ha poi utilizzato in altri procedimenti in materia di lavoro per contestare la legittimità del suo licenziamento. Tale condotta integra, anche sotto il profilo della volontarietà dell’azione, gli addebiti contestati con violazione del solo dovere di verità, ma altresì gli obblighi deontologici di probità, lealtà, correttezza e diligenza nell’adempimento della professione.
Emerge, pertanto, una sicura a piena consapevolezza e conoscenza dell’illiceità della condotta connotata dalla coscienza e volontà di cui all’art. 4 del nuovo Codice deontologico recante volontarietà dell’azione, che ricorre quando, con un atto consapevole volitivo, si tiene un comportamento illecito. Ne consegue una presunzione di colpa con il preciso onere a carico dell’incolpato di escludere l’addebito attraverso la prova della inevitabilità dell’errore o della sua non riferibilità, prova che non è stata fornita dall’avvocato.
Sempre secondo il ricorrente la sentenza impugnata non prenderebbe, altresì, in considerazione documenti ed argomentazioni decisive per il giudizio, quantomeno in ordine alla sanzione applicabile in concreto, dal momento che non sarebbero stati considerati alcuni elementi che permetterebbero di rimodulare al minimo la sanzione, quali l’ammissione del fatto, il consenso della persona assistita, l’assenza di conseguenze dannose, i motivi di rilievo umano e morale, buona fede dell’incolpato e la resipiscenza dimostrata.
Su questo punto le Sezioni Unite controbattono asserendo che nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, gli elementi valutati in concreto per la determinazione della specie e dell’entità della sanzione non sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità. Il C.N.F. ha ampiamente motivato sulle ragioni per le quali ha reputato corretta la decisione di primo grado sull’entità della sanzione in considerazione della piena consapevolezza della condotta di falsificazione e della gravità che assume la ripercussione di tale condotta sulla dignità ed onorabilità della professione, in quanto idonea a sminuire la credibilità dell’intera categoria.
Il giudizio di gravità, che ne ha tratto il giudice disciplinare, non è sindacabile avanti le Sezioni Unite della Corte di Cassazione in quanto la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. Sez. Un. n. 1609/2020).
Il ricorso veniva dunque totalmente rigettato, venendo così riaffermato il carattere assoluto del principio etico del dovere di verità dell’avvocato sancito dall’art. 50 del Codice Deontologico Forense a tutela dell’affidabilità e della dignità della professione forense.